… Affacciai leggermente la mia testa per sbirciare quel che stava accadendo al di fuori del mio vagone. C’era la polizia, il capotreno ed un paio di persone in più. Il bruciare lento delle loro sigarette contornava tenuemente di fumo i loro volti assonnati e tranquilli. La luce conica e giallognola dell’unico lampione, in quella stazione di frontiera di Fuentes de Oñoro, illuminava a metà le loro gambe senza molta forza. Parlottavano, ridacchiavano. I poliziotti salutando i due signori salirono insieme al capotreno in uno dei vagoni. Controlli di routine che, dopo aver espletato le formalità, e consegnato anche i miei documenti, passarono rapidamente.
Fuentes de Oñoro, poco più di mille anime vi ci vivono, cullate dal tempo quasi immobile, che scivola senza alcuna fretta fra le cunette, ai bordi delle case dalle facciate sbiadite e piene di rughe. Nessuno ha voglia di tinteggiarle nuovamente. È una città di frontiera. Osserva inerme ed attiva il via vai dei treni che raramente si fermano in essa, giusto qualche minuto per sgranchire le gambe, fumare una sigaretta rapidamente prima del fischio del capotreno che annuncia “via da qui”. Calpestata da qualche avventore che molto verosimilmente ignorava e continuerà ignorando la sua storia ed il suo nome. Un po’ come una prostituta. Eppure, così ricca di aneddoti da raccontare. Storie, fantasie, giovani viandanti alla ricerca di loro stessi, mercanti. È una città di frontiera, un posto dove, lingua, tradizione, cibo e cultura si mescolano come nel mare le onde di più correnti violentemente in un angolo. Così, Fuentes de Oñoro dimenticata e sola, ricorda a sé stessa che, è stata teatro della sua sanguinosa e crudele battaglia, combattuta agli inizi del 1800 durante la guerra per l’indipendenza spagnola, rimane lì, come quella donna stendendo all’alba le lenzuola bianche sulle quali, possibilmente adesso dorme sola, abbracciando la sua solitudine. I figli ed i nipoti spersi in qualche grande città senz’anima. Io invece amo questi luoghi densi e superficiali allo stesso tempo, lontani dalla metropoli vuote e senza centro. Ciao Fuentes de Oñoro ci vedremo nuovamente, te lo prometto, da queste parti per camminare tra le tue vie sincere.
Risalgo nuovamente sul treno notte, il capotreno già è la seconda volta che fischia dentro il fischietto, distogliendomi dai miei pensieri e dal guardare, imbambolato, al dì là delle casette basse, il sole che timido sta iniziando ad albeggiare, riscaldando, a poco a poco il campo tutto intorno a noi. Torno nel mio scompartimento e nella mia cabina. Mi rimetto a dormire. Il treno riprende il suo cammino ed inizia a valicale la frontiera tra Spagna e Portogallo così facilmente per me, per noi ma così complicato per molte persone che vi perdono la vita. Affogate e lasciate lì, faccia nel fango, abbracciando il loro neonato nel sanguinoso Rio Grande che macchia le mani di sangue innocente degli Stati Uniti, o annegate nel mare mosso del Mediterraneo, senza soccorsi, bambini e bambine, senza colpe morti senza nessuno che se ne vergogni tra la paura ed il freddo della notte mentre l’acqua si impossessa dei loro polmoni fino a togliergli la vita, dentro le lacrime di un genitore impotente che viene, anch’esso trascinato verso gli abissi. Persone che provano a saltare frontiere, non per gusto ma per fame, voglia di una vita degna, per realizzare un paio di sogni, rubatogli da una manciata di pezzi di nulla, spietati e senza Dio. Per sfuggire a battaglie inutili e senza senso create dagli stessi che non li vogliono nel loro paese e continuano a privarli delle loro materie prive, figli e futuro. Morti impolverati, infilzati dalle reti arrugginite tra il Marocco spagnolo e la spagna prima di maiuscola. E molti anni a cui va il mio onore sdraiato su quello letto, dentro di questo convoglio che mi porterà direttamente a Lisbona. Prendo sonno malgrado il mescolarsi di emozioni che si alternano dentro di me, saltando da un lato all’altro dei miei sentimenti.
Filtra, tra le screziature dorate, della tenda semichiusa, illuminando di calore la cabina, il sole portoghese. Stiamo arrivando a Lisboa, senza la n come si scrive nella sua lingua. La voce del capotreno, differente da come la ricordavo annuncia in portoghese, spagnolo ed inglese la nostra prossima entrata nella stazione d’Oriente invece che nella centrale della città, problema dovuto ad un guasto tecnico sulla linea. Nessun problema per me, sto viaggiando senza premura. Mi sveglio, mi alzo, lavoro il mio viso ed i denti nel lavabo dentro la abitazione, mi vesto comodo con vestiti differenti e approfitto per cercare il mio alloggio per dirigermi, dopo aver trovato un posto per fare colazione a lasciare le mie pertinenze, doccia, e via per perdermi nella capitale dove è la prima volta che approderò. Frena lento fino a fermarsi, raccolgo le mie cose e scendo. Il primo passo in Portogallo mi rende felice. Profuma a salsedine ed oceano. Già mi piace.
a cura di Michele Terralavoro