Diario di avventure, finestre sulla Terra. Santa Rosa de Osos, l’indissolubilità dell’infanzia

Ci sono legami indissolubili. Ricordi che neanche una vita intera potrà scalfire mai. Legami indistruttibili, forti come il vento in poppa, come il granito, come l’abbraccio sincero di una madre o la carezza di un padre. I primi giorni di scuola, le elementari, gli occhi della maestra che ti guardano. I primi rimproveri, le prime amicizie e delusioni, i piccoli o grandi traguardi, o fallimenti. Le costruzioni, i giocattoli. Il primo innamoramento per l’amichetta o l’amichetto, le pulsioni sessuali che si insinuano dentro i nostri corpi e alle quali non si sappiamo dare risposte. Le amicizie che, seppur perdendosi nel trascorrere della vita, il tempo e la vita non riuscirà mai a slegare perché vissute in quell’epoca della nostra vita, la giovinezza, l’infanzia, l’adolescenza, epoche in cui stiamo costruendo la nostra persona e personalità. Stiamo scalfendo il nostro carattere, le nostre passioni ed ambizioni. Stiamo creando la nostra psiche, arricchendo il subconscio di memorie che, alcune, probabilmente neppure noi stessi ne ricorderemo i fatti. Ripercorrere quei luoghi, i luoghi dove abbiamo avuto la possibilità di essere ciò che desideravamo o meno essere, i posti della nostra prima giovinezza riesuma emozioni a fior di pelle e una mescolanza di contentezza e nostalgia, velata chissà da una breve tristezza o gioia.

Arrivammo a Santa Rosa de Osos, Antiochia, Colombia dopo un tragitto in un bus da Medellin, di circa un paio di orette. Quest’ultimo si inerpica sul costale della montagna, sulle sue pendici sopra le quali è stata costruita una strada a due corsie abbastanza stretta per i deboli di cuore. Santa Rosa de Osos è più in alto delle nuvole. Tutto intorno è verde vivace, a volte una locanda interrompe il movimento sincronico della van, da un lato all’altro, il suo serpeggiare costante lungo quel cammino di cemento creato per rendere la salita più comoda, sicura e rapida. Casette colorate appaiono sui due dorsali, alcune di esse, costruite a picco su rupi di roccia, si affacciano sulla città dell’eterna primavera, Medellin, altre su strapiombi rigogliosi di piante e piantagioni. Saliamo con un movimento costante, mi ricorda quella canzone “due elefanti si dondolavano sopra un filo di una ragnatela e ritenendo la cosa interessante andarono a chiamare un altro elefante…”. Ogni tanto una persona tende la mano e l’autista, gentilmente accosta e, dopo aver ricevuto il denaro e dato, se necessario il cambio, riprende il suo cammino.

Santa Rosa de Osos è un dipartimento di circa trenta mila persone, luogo in cui Sebas è nato e cresciuto, fino ai primi anni della sua adolescenza. Da lì, ha iniziato a costruire la persona che è oggi e, ovviamente, non potevamo non andare.

La van continua a salire lungo le pendici della montagna, alcune persone sedute attorno ad una tavola rettangolare in legno massiccio salutano l’autista al doppio suono del claxon che risuona allegro nel movimento, senza fermarsi fa un cenno con la mano destra e continuiamo a serpeggiare verso su, sempre più in alto. Le orecchie si otturano alcuni istanti, mastico una gomma alla fragola, stile Big Bubble per decomprimere i miei timpani e sturare il mio udito. Il sole all’improvviso sparisce dietro una cortina di nuvole bianchissime e vellutate. Il cielo di tinge di bianco anch’ecco e tutto acquista un tono magico ed a tratti malinconico e misterioso. Guardo fuori dal finestrino e non vedo che bianco, una nebbia fitta ricopre ogni cosa intorno a noi, sembra di passare per uno dei portali magici di un film Disney. Cerco di intravedere qualcosa osservando davanti a me lungo il corridoio verso la strada davanti a noi ma, assolutamente nulla. Mi domando come il conducente riesca a vedere a cosa stiamo andando incontro o se, probabilmente, va a memoria. Nel frattempo, mi auguro che, sia quel che sia non voliamo giù da un dirupo. Sebas è tranquillo. Senza preavviso, dopo circa, dieci o quindici minuti i primi raggi di sole penetrano la fitta nebbia che ci avvolgeva e, pian piano tutto ridefinisce i contorni e le cose si riappropriano del loro essere e dei loro colori e forme. È proprio vero, esiste solo quello che osserviamo, tutto il resto è esperienza, racconto o memorie. Torna il sole ed il panorama cambia totalmente. Siamo sopra le nuvole, sotto di noi già non si vede la città di Medellin ma, nuvole bianche colpite dai caldi raggi del sole.

Arriviamo nella piazza principale di Santa Rosa de Osos, scendiamo quasi tutti quanti. La chiesa è al centro, si innalza con le sue due cupole bianche a marroni. I mattoni color caramello brillano al sole ed una vivacità densa anima i dintorni. Prima fermata, un forno dove compriamo una delle pietanze tipiche di questo paese, il “Pan de Queso”, una ciambella salata fatti di farina e formaggio. Ne prendiamo un paio di pacchetti da cinque, sono belli caldi, e buonissimi. Li accompagniamo con un buon tinto, un caffè bollente, bagnati dal sole che risplende, qui su, oltre le nuvole, più che mai.

a cura di Michele Terralavoro

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