Diario di avventure, finestre sulla Terra. L’approdo, Barcellona

La nave salpa precisa alle 23.45 dal porto energico di Civitavecchia. Mentre saluto mia mamma vicino alla macchina, la sigaretta brucia lenta senza essere fumata tra le sue mani esili ma forti. Un bacio sulla fronte come benedizione per questa nuova avventura e con lo zaino in spalla, la felpa attorcigliata in vita ed una mini-tastiera Yamaha nella custodia semirigida, mi dirigo verso gli ormeggi bagnati delle imbarcazioni attraccate nel porticciolo che precedono i traghetti e i cargo che si lavano prima di prendere il largo. I pescherecci oscillano leggeri, i pescatori snodano i nodi delle loro reti con le mani callose del lavoro, qualche pesce ancora risiede lì e viene lanciato nelle taniche blu sul marciapiede ed io, snodo alcune riflessioni sugli occhi miei uguali a quelli di mia madre, sul percorso che sto per affrontare, sul sacchetto di cartone di Burger King contenete la mia cena e sulla oscurità dell’orizzonte notturno. La Grimaldi si svuota e riempie rapidamente ed ordinata. Le macchine ed i camion escono rumorosi dalla sua pancia, partorisce mille vite, ognuna con il suo proposito per stiparne altrettante, sudate dal calore umido e appiccicoso di fine giugno.

Mi dirigo attraverso i suoi corridoi calpestando la moquette rossiccia e macchiata anni Novanta che la ricopre quasi interamente. L’autoparlante trasmette la voce di un impiegato, iniziando a spiegare le differenti istruzioni di bordo. Raggiungo la mia cabina. La tessera elettronica fallisce un paio di intenti ma riesco ad entrare. Ci sono due letti singoli, bassi con le basi di legno chiaro. Le lenzuola brandizzate bianche li vestono. La stanza profuma di pulito e detergente. Lascio le mie cose sul letto di destra per dormire su quello opposto. C’è uno specchio con delle luci calde che lo incorniciano, una piccola scrivania sotto di lui ed una poltroncina di pelle, perfetta per scrivere durante la navigazione. Il bagno è con doccia, una parete è completamente rivestita da un altro specchio ben lucidato. Un paio di saponette e due saponi stazionano vicino al rubinetto e la tenda di plastica blu nasconde la doccia alle sue spalle. Mi sdraio qualche secondo sul letto vuoto, qui non c’è copertura telefonica e la cosa mi entusiasma abbastanza. Prendo la busta di Burger e salgo i 3 piani che mi separano dal ponte nove dove si trovano i ristoranti, un paio di bar e sopra ancora la coperta con una piscina momentaneamente vuota. Percepisco l’oscillare provocato dallo stazionarsi dei tir che ancora stanno imbarcando. Mi siedo su una panchina a favore di mare. Addento il mio hamburger ormai freddo ma ugualmente buono e saziante. Le luci del porto illuminano i volti delle case e le strade di Civitavecchia donandogli sfumature poetiche di inaspettata gioia e malinconia. D’improvvisi sprazzi di felicità mista lacrime. Sorrisi grandi di chi sta per godersi le poche vacanze dopo un anno di lavoro, la vita che si riduce a pochi giorni dati come un premio. Non bisognerebbe buttar via l’esistenza compiendo i sogni di qualcun altro. La malinconia di chi ritorna povero di esperienze, da qualche inutile resort o villaggio turistico. Mangio l’ultima patatina secca, sotto il rumore dei motori che si innescano pronti per la traversata.

S’allontanano le luci arancioni del porto, pian piano l’orizzonte inizia a perdere definizione. Il gomitolo di lampioni, fari e finestre iniziano a disciogliersi lente e costanti trascinate dalla scia dell’andare del traghetto che inesorabile prende il largo. L’ebbrezza del desiderio, l’abbagliante oscurità dell’ignoto che mi attrae come una calamita verso il suo metallo preferito, l’errare che mi fortifica e mi arricchisce. Parte di un tutto. Parte di me stesso e della vita. Già l’ultima luce della terra ferma si inchina alla notte lasciando spazio alle stelle arroganti e lucenti nel cielo ceruleo scuro e alla luna regina indiscussa delle notti. Idee, amore e nuovi progetti. Il vento sul ponte tira fortissimo, i capelli si alzano all’indietro e poi in avanti, quando granchio cammino al contrario per godermi il mare che inizia a pompare sotto le eliche. Mi fermo alcuni istanti appoggiato alla balaustra di legno ossidato dal sale delle onde trascinata dalla brezza marina. Ammiro muto il buio luminoso di un nuovo avvenire pronto ad accoglierlo, come sempre, positivo e pieno. La Grimaldi solca pacifica e piena di fermezza il manto di Nettuno che placido ci lascia scivolare sopra di lui. Sorrido mentre del sale disegna sulla mia guancia un sorriso, raggiunge il mento e la barba biondiccia. Guardo le costellazioni. Da qui si vedono decisamente meglio, che pena che si siano perse le stelle nelle città e negli occhi. Le loro illustrazioni nelle metropoli rovinate dall’inquinamento luminoso, illusorio e feroce, firma di una società cieca e senza bussola.

Nudo, un po’ sudato e ancora condito di sale e di sogni, mi sveglio, sdraiato sulla brandina della mia cabina. Nulla si è mosso, tutto e rimasto intoccato ed invariato. Un’ilarità si affaccia sul mio volto, una doccia tiepida, il sapone scorrendo sul mio corpo, lo specchio appannato, l’asciugare ritmato delle mie mani sui capelli. Fuori, l’oblò mi incornicia Barcellona domenicale e ancora dormiente, canuta, avvolta dalla nebbiolina estiva. La nave entra nel porto, stanca ma contenta e come nel bellissimo Teatro Rossetti di Trieste, il sipario blu si apre, così come la brisa, e le strade si dispiegano rette fra gli edifici. Zaino in spalla. Barcellona.

a cura di Michele Terralavoro