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L’Edipo re nella rivisitazione di Nicola Macolino

Tra ipovisione e profetica visionarietà.

Ed(ipovisione)” di Nicola Macolino e di Azzurra De Gregorio (produzione Abraxas Lab, 2013), è una rivisitazione in chiave post-moderna dell’Edipo re di Sofocle, uno dei drammi strutturalmente più complessi dell’antichità, che, sin dai tempi di Aristotele, fu considerato espressione perfetta dell’arte tragica greca. Attraverso una inquieta e vorticosa ricerca della propria reale identità, il protagonista Edipo, scontrandosi con l’ambivalenza di responsi oracolari – ambivalenza in cui risiede l’essenza stessa della cosiddetta “ironia” tragica – arriva a scoprire, in un crescendo di tensione, di essere stato l’artefice dell’assassinio del padre Laio e di aver sposato la madre Giocasta. Giunto alla tragica consapevolezza, si autopunisce accecandosi: se dapprima, quando i suoi occhi vedevano, egli era cieco di fronte alla verità, ora, giunto alla risoluzione dell’enigma, diventa cieco a tutti gli effetti. Ed è sul dubbio che la vista costituisca realmente il più affidabile tra i cinque sensi, che Macolino incentra la sua reinterpretazione del dramma sofocleo, deliberatamente tesa ad una de-strutturazione e ad una de-contestualizzazione del testo originario, nell’intento di creare un’anacronistica atmosfera visionaria, ai limiti del surreale e del grottesco, in grado comunque di spiazzare il pubblico. Così Giocasta, che in Sofocle è un personaggio attivamente impegnato a spegnere gli atroci dubbi di Edipo, diventa una mera presenza scenica nell’aspetto di un corpulento uomo incipriato, tenuto in vita da due flebo, e rivendica una propria autonomia operativa soltanto nell’atto finale del suicidio. L’alata Sfinge, coadiuvata dalla sua assistente Anubi, si ciba dei resti delle sue vittime. Tiresia, che ha un’identità sessuale sfumata, pratica la copromanzia. Il ritmo serrato del dialogo e la parola passano in secondo piano rispetto alle immagini (le quali tuttavia nella forma di diapositive scorrevoli riproducono anche il testo di oracoli, pensieri o frasi dei vari personaggi), ai “tempi morti” (riempiti da effetti scenografici, da suoni assordanti, da brani musicali degli anni ’40), alle pause, che però sono funzionali a stimolare la riflessione del pubblico, costretto ad interrogarsi costantemente su ciò che sta accadendo in scena. Su alcuni aspetti del suo lavoro, si è soffermato con noi il regista Macolino.


Il titolo della sua rielaborazione della tragedia sofoclea si basa sul gioco di parole Edipo/ipovisione: Edipo, prima arrivare alla soluzione dell’enigma, vede il mondo che lo circonda, ma di fatto non vede la realtà delle cose.

Esatto, si è giocato sull’ambiguità perché il testo lo permetteva. Il tema centrale dell’Edipo re di Sofocle è la vista. Dovevo trovare un modo per renderlo non banale: a tal proposito, il termine «ipovisione», che indica una ridotta capacità visiva, mi è sembrato il più adatto a rimarcare il concetto che la vista non è il più importante dei cinque sensi. Edipo infatti non è stato in grado di vedere con gli occhi il male che ha commesso. Al contrario, il cieco Tiresia ben conosce la realtà, essendo un veggente.

Tiresia è un “trans in trance”, per rimanere in tema e dirla con un gioco di parole. Singolare anche il modo in cui dà i suoi responsi.

Ho cercato di immaginare come Tiresia potesse essere un veggente. Se uno non vede attraverso gli occhi, ho pensato che potesse vedere attraverso ciò che assorbe dall’esterno, che viene metabolizzato e infine espulso.

Giocasta ha l’aspetto di un budda. All’inizio si fa fatica a riconoscerla, perché sembra un personaggio di contorno, che si limita ad osservare la scena, con delle flebo che sembrerebbero preludere alla sua sofferenza imminente.

Ho giocato anche qui sull’etimologia delle parole: Giocasta vuol dire «colei che guarisce dal veleno», e quindi l’ho immaginata come una matrona con le flebo. Così come il nome Edipo vuol dire «dai piedi bucati», ed è per questo che, ispirandomi ad un quadro di Bacon, l’ho rappresentato come un pugile con i piedi fasciati. Giocasta, a differenza degli altri personaggi che “fanno qualcosa”, “è qualcosa”: ha tutte le declinazioni del verbo essere: è moglie, madre, amante; è inoltre corpo non parola. Alla fine, attraverso l’impiccagione, annulla totalmente il suo essere.

Ho notato che ci sono pochi dialoghi, la parola è subordinata in un certo senso alla scenografia.

Sono uno scenografo, mi interessa l’immagine più che la regia o l’aspetto recitativo: il mio scopo è quello di lavorare con le immagini per distruggere la narrazione.

Si potrebbe definire “sperimentale” il suo modo di fare teatro?

Credo che chiunque si dedichi al teatro faccia in qualche modo ricerca e sperimentazione. Del resto, sotto l’etichetta “sperimentale” spesso si includono opere non sempre qualitativamente egregie. Al di là delle definizioni convenzionali, è forse più opportuno distinguere un buon teatro da un cattivo teatro. Giudicheranno gli spettatori se la mia attività ha diritto a rientrare nella prima categoria.

Massimiliano Longobardo

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Redazione StreetNews.it
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