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La bellezza nelle opere di Marco Proietti Mancini

Era da un po’ di tempo che coltivavo l’idea di intervistare Marco Proietti Mancini e così gli ho scritto. Lui ha accettato, dimostrando una disponibilità inconsueta.

Proietti Mancini è una persona con grande lucidità, perspicacia e sensibilità. Le sue esternazioni possono non piacere, e alludo ai post su Facebook, a qualcuno può risultare, no antipatico, fastidioso, ma non lo è.

Quel che più appare essere riguarda la scrupolosità che mette nell’analizzare fatti e misfatti.

Non si sa molto di lui e della sua vita privata a parte che è uno scrittore. E che scrittore! 

Mi correggo di lui qualcosa di importante si sa e cioè che ha una figlia, un figlio, una moglie e poi c’è stato Achille, il suo meraviglioso cagnolone, adorabile visione, che ora purtroppo non c’è più. E per non rattristarci in misura eccessiva occupiamoci dei libri che Marco Proietti Mancini ha scritto e naturalmente pubblicato; ha esordito con Da parte di Padre (Edizioni della Sera) a seguire Il coraggio delle madri (Edizioni della Sera), Oltre gli occhi (Giubilei Regnani), Gli anni belli (Edizioni della Sera) e ancora: Parlando dei miei giorni (Augh!), La luce degli istanti felici (Edizioni della Sera), La terapia del dolore (Historica). Infine le raccolte di racconti: Non serve nascondersi (Miraggi) e Roma per sempre (Edizioni della Sera). Alcuni sono presenti in varie antologie tra cui Nessuna PiùQuaranta scrittori contro il femminicidio (Elliot).

Ho letto l’ultimo suo romanzo, “Io sono Hotel Garibaldi”, e non trovo le parole per descrivere cosa ho provato, sicché mi appoggio a quelle esistenti che a malapena si avvicinano alle mie sensazioni. Ebbene: che meravigliosa esperienza, perché di questo si è trattato, incontrare la storia e i personaggi che vivono, sì vivono, in “Io sono Hotel Garibaldi. È stata un’avventura sensoriale indimenticabile.

Pazzesco leggerlo, si è trasportati con delicatezza dalle parole da una pagina all’altra come di solito solo un classico riesce a fare.

“Io sono Hotel Garibaldi” apre il cuore e la mente del lettore, affinché tutto fluisca e le emozioni si liberino: dolore, passione, amore, sincerità, paura, dolcezza, pianto e molto di più.

Un romanzo vitale con le vene che pulsano, simile a un essere umano che contiene tutti, tutte e tutto. 

Tra l’altro, a mio parere, è un film già pronto. Chissà se Marco c’ha pensato. Questa sarà sicuramente una delle domande che gli porrò.

Marco, ma tu chi sei? Un extra terreste venuto a salvarci? Scherzo anche se non del tutto.

No, nella maniera più assoluta, non mi sento un salvatore. 

Io rivendico orgogliosamente di percepirmi come un individuo, non uso il vocabolo “normale”, dato che non amo la definizione di normalità applicata a qualcuno, ma preferisco utilizzare, persino, nei miei confronti, la parola: banale.

Però devo aggiungere che messa in questo modo sembra che mi stia votando alla banalità, come dire che ciò che faccio, scrivo, manifesto, sia enormemente scontato, ma non è così. È un percorso che mi ha portato, dopo tutto quelche ho vissuto, a potermi esprimere quasi con brutalità, mettendo in campo la franchezza del mio pensiero, i miei racconti e le mie opinioni; è certamente tutto più semplice alla mia età, si ha molto meno da perdere, non c’è più interesse al guadagno e si va al di là della carriera. Quello che dovevo ottenere l’ho ottenuto, non mi concedo alibi e comunico evitando troppi filtri, non dico senza, in quanto non è possibile e neppure naturale, in caso contrario si va a finire nella parte sbagliata del settore, rischiando di ferire, fare male, dei filtri sono necessari per proteggere gli altri, pertanto sono arrivato a un punto della mia vita per cui posso esternare ogni cosa che osservata dalla mia prospettiva considero giusta, utile a chi la riceve, la legge. E questo non fa di me un alieno.

Da dove viene lo scrittore, poetico, che è in te?

Viene da una iper sensibilità rispetto all’universo che mi circonda. Ed essa è genetica. La ricordo in me da tempo immemorabile; sono facile a rimanere ferito, ad arrabbiarmi, indignarmi, a innamorarmi, quand’ero un ragazzo, di ideali, degli esseri umani o situazioni e ad appassionarmi ad alcune cause.

Ho cominciato a scrivere da giovanissimo, la scrittura come forma di espressione per me è stata un modo di incanalare, indirizzare e sfogare ogni cosa che a voce o con i comportamenti, magari, era più difficile da fare, poi all’atto pratico le prime cose le ho pubblicate in età molto avanzata, nel 2000, a cinquant’anni, quando ho deciso che quello che scrivevo poteva essere messo a fattore comune e condiviso.

Come nascono le tue storie e i personaggi? “Io sono Hotel Garibaldi”?

Essenzialmente io ho scritto due tipi di romanzi: una saga, chiamiamola saga, va di moda chiamarle saghe; tuttavia a me piace pensare che siano quattro romanzi totalmente autonomi nonostante raccontino la vita dello stesso uomo.

Una saga che prende spunto dalla storia della mia famiglia, ma in concreto poi si evolve in una ricostruzione sociale. La mia esigenza era di rinvenire una narrazione che in Italia si era un po’ persa e ora si sta recuperando, molti stanno scrivendo le saghe familiari, spesso con estrema attenzione a famiglie, diciamo così, famose nel mondo reale o nella fantasia dell’autore. Io invece ho la fissazione della storia minima che è ancora mancante nel panorama narrativo.

In questi romanzi ho voluto raccontare di una famiglia popolarissima, che più popolare non si può, proletaria se vogliamo, benché il proletariato tenda a sparire, dopo gli anni settanta, con la cancellazione di un certo tessuto economico. E perché? Perché era una vita che io chiamo “del pane e mortadella”, in cui il prosciutto era un lusso da mettere in tavola e la carne di cavallo era ritenuta una necessità di ripiego, visto che costava meno del manzo.

Perciò in quattro romanzi ho voluto narrare l’evoluzione di una società, dal 1915 al 1961, attraverso gli occhi di un gruppo familiare del popolo, dal minatore, il fondatore della dinastia, vero, che aveva a che fare con le mine nelle cave di marmo, all’impiegato di concetto: il figlio. Era una delle mie volontà espressive; una lente d’ingrandimento sulle storie che nei libri non trovi e secondo me questa esposizione narrativa in Italia si è fermata con Moravia e faccio questi nomi, non per accostarmi a loro, ma, solo per rendere l’idea.

Prima esisteva un filone, c’era Pratolini, Cassola, Pasolini in alcuni scritti o c’era la Morante, poi si è andati in un’altra direzione e sono nate le storie sull’alta borghesia.

Gli altri miei romanzi, che io definisco assestanti, nascono da disperazioni diversissime, da omaggi a vari autori, uno di questi è “La terapia del dolore” che mi è venuto in mente dopo aver letto un grandissimo romanzo di Simenon che adoro, “Le campane di Bicêtre; racconta l’evoluzione di un uomo ricco e potente che dopo una malattia invalidante si trova a riconsiderare tutta la propria esistenza. Direi che scrivo per il fatto che ho letto e leggo e quello che leggo diventa la mia ispirazione, non è che io ho voglia praticare l’imitazione, soltanto, mi piace prendere spunto.

Un altro romanzo, “Oltre gli occhi“, per la maggior parte deriva da un film di Marco Ferreri, “La cagna“, con Mastroianni e la Deneuve.

Sostanzialmente faccio un po’ come i bambini con le costruzioni lego, quando trovano una bella casetta già costruita, smontano tutto, la ricostruiscono e la copia viene addirittura meglio dell’originale, non è il mio caso, è chiaro che io non possa confrontarmi con i grandi, ma rimane il fatto che amo questo processo e in effetti “Io sono Hotel Garibaldi“ nasce da una concezione di questo tipo, nel senso che ho letto e riletto “Novecento” di Baricco che non è un romanzo, ma un monologo teatrale di una cinquantina di pagine in cui la voce narrante racconta della sua vita, piena, completa, totale, assoluta e con tutto ciò che può contenere: rabbia, gioia, cose belle, brutte; tenendo il protagonista chiuso nello scafo di un transatlantico. Io volevo espandere questa storia del transatlantico e l’ho fatto diventare un hotel; poi sempre seguendo la mia ossessione per le vicissitudini degli ultimi, l’ho circondato di una umanità brulicante, come direbbero quelli bravi, quindi il personale dell’albergo e in particolare del tutore, la figura che cura la crescita, lo sviluppo umano, di Otello, chiamato Hotel. Angelo è poco più di un factotum di un albergo ed è forse la parte più vera del romanzo, perché è ispirato a una persona che esiste veramente, a un totem di un grande hotel di lusso a Roma che in verità non viveva nell’albergo, ma stava lì dalle cinque di mattina alle dieci della sera a disposizione in qualsiasi momento e per qualunque cosa.

C’è poi un altro romanzo che è la più bella di tutte le storie che ho scritto: una donna scappa da una provincia e vive, alla Manuel Fantoni come affermerebbe Carlo Verdone, prima a Milano e in seguito a Treviso. Si dedica alla mondanità, al divertimento e alla fine priva di remore morali sceglie di prostituirsi. È una vicenda realmente accaduta, me l’ha affidata la protagonista, io l’ho romanzata dandole tutto quello che ciascuno di noi non vede nello specchio quando si guarda ovverosia riesce a scorgere solamente un’immagine fisica, una visione distorta del proprio sé interiore. Lei mi ha raccontato la sua vita e io l’ho esplosa per sentimenti, emozioni, istinti; pensa, poi mi voleva pagare per una seduta psichiatrica.

Dei miei romanzi posso ben dire che siano state genesi istintive diverse e i prossimi due lo saranno ancora di più

Ho intravisto il grande amore che trapela dalle pagine che scrivi e mi riferisco, di nuovo, a “Io sono Hotel Garibaldi”. Tanto amore non è usuale in un romanzo, no?

Non lo so, io scrivo così.

D’altra parte i romanzi più spietati, feroci, e sto pensando a “Un’arancia a orologeria” di Anthony Burgess da cui è tratto il film “Arancia meccanica” o “Crash” di Ballard che sono di una violenza assoluta mai celebrata, enfatizzata o comunque raffigurata in maniera talmente asettica da far soffrire e che sono autopsie della malvagità umana, eppure, contengono momenti d’amore. 

Ma anche Il tuo di amore? 

Sì, c’è un trasporto, un transfert.

Quando scrivo divento ognuno dei personaggi, non uno solo, e questa è la crudeltà dello scrittore a differenza dell’attore che in una rappresentazione teatrale, in palcoscenico, ha la sua parte. Parlo di teatro e non di cinema, in quanto il cinema è frutto di montaggio, è indubbiamente un’arte, ma è un cuci insieme parti; proprio recentemente ho scoperto che i dialoghi non sono quasi mai dialoghi, ma più precisamente monologhi montati per simulare il dialogo con l’attore di spalle che spessissimo non recita e quell’altro che parla a un muto.

Lo scrittore è solo quando scrive e se c’è una scena con cinque personaggi: un buono, un cattivo, un amorfo, un complice, un vigliacco, deve essere in grado di viverli tutti; a volte, scherzando dico di me: “Io sono moltitudini”. Sì, mi ritrovo posseduto contemporaneamente da più anime che fanno a pugni dentro di me. D’altronde è l’unica modalità che ho di rendere credibili i dialoghi ossia mettermi nei panni, anzi diventando colui o colei che parla e se il mio protagonista fa l’amore, io, faccio l’amore.

Devo ammettere che sono rimasta sbalordita dalla descrizione che fai dell’intimità tra Otello/Hotel e Cecilia in “Io sono Hotel Garibaldi”. Poesia pura.

A dire il vero devo ringraziare delle persone che hanno letto, come succede spesso, in beta il mio romanzo.

Io sulle scene d’amore sono abbastanza pudico, reagisco un po’ come nelle commedie americane degli anni cinquanta che quando i due protagonisti si baciano poi sfuma l’inquadratura, si chiude la porta, si spegne l’abat-jour e invece queste due editor bravissime, palermitane, le gemelle Peritore che si trovarono a valutare “Io sono Hotel Garibaldi” per un’agenzia, mi dissero: “Sì, ma qui quello che fanno lo devi far “vedere”, capire, non puoi avere questo pudore. È giusto “mostrare” l’atto d’amore che compiono, non puoi rappresentare i sentimenti, le passioni in tutti modi: la paura, il terrore, il mal di pancia che prova il protagonista riguardo a certi accadimenti come i bombardamenti ad esempio e poi quando fa l’amore chiudi la porta e rimane là che si capisce che lo faranno, ma non lo racconti. Devi avere il coraggio di raccontarlo”. E allora ho superato il blocco che peraltro avevo dovuto vincere già per altri romanzi, in “Oltre gli occhi” c’è uno stupro che è stata una delle cose più complicate che io abbia scritto in tutta la mia attività.

È complesso fare lo scrittore se si scrive come faccio io, in maniera assolutamente caotica, disordinata e sprovvisto di scaletta, programmazione o schema.

Io scrivo di getto ed è estremamente pesante per chi mi vive accanto, sì, sono capace di diventare un cane arrabbiato, non mi si può interrompere, parlare, altrimenti si arresta quel flusso, quel filo, ed è come se mi si fermasse nell’attimo in cui sto facendo a botte, l’amore o altro e poi purtroppo si paga; la lacerazione, innanzitutto, che si vive alla fine di ogni romanzo, è uno strappo dalla vita dei protagonisti, dei personaggi. È qualcosa che mi provoca malessere fisico e dura uno o due giorni in cui vorrei chiudermi, non vedere nessuno, parlare ancora meno, non voglio andare a cena con gli amici, ricevere telefonate, perché dentro di me si stanno spossessando: Hotel Garibaldi, Cecilia, Angelo, Ciro, il cameriere, il direttore dell’albergo, la madre di Hotel; posso dirlo, non spoilero niente, non è un giallo, far morire la mamma di Otello è stato come subire un lutto. Ero Otello mentre viveva la morte della madre.

“Io sono Hotel Garibaldi” diventerà un film?

Non dipende da me.

La cinematografia è una cosa bellissima, ciononostante è difficile che un film sia più originale di quanto lo sia la letteratura.

Forse sarebbe più comprensibile ipotizzare una riduzione teatrale di “Io sono Hotel Garibaldi”.

Del resto il controllo delle opere, una volta che sono pubblicate, è un lavoro che non sta più all’autore fare, ma all’editore, alle agenzie, all’agente.

Tra l’altro c’è da dire che in Italia ogni anno vengono pubblicati, più o meno, mal contati, novanta mila nuovi titoli di narrativa tra racconti, romanzi, tutto ciò che non è editoria scolastica, saggistica universitaria, letteratura per l’infanzia, dunque si può immaginare il mare magnum in cui possono pescare i vari sceneggiatori e registi, principalmente, in un settore come quello cinematografico che sta vivendo un’epoca di immenso cambiamento, dato che si ritrova con le sale sistematicamente più vuote e i salotti rigorosamente più affollati per vedere le varie piattaforme con le serialità e i film realizzati apposta per la distribuzione streaming ed è ovvio che gli interpreti, gli autori, ecc., che erano campioni d’incassi al cinema abbiano dovuto parcellizzare la loro presenza, giacché diluiscono nel tempo, rendono fruibile per decenni, quello che prima si bruciava in poche settimane, un mese, a parte i film capolavori.

Le sale cinematografiche diventeranno come le edicole che stanno sparendo, poiché nessuno legge più i quotidiani cartacei, la stessa cosa succederà con i cinema che dovranno trasformarsi in qualcos’altro e quindi, no, io non credo che avrò mai la fortuna di vedere il film “Io sono Hotel Garibaldi”. Statisticamente è quasi impossibile che succeda.

Marco, se dico Achille tu che mi dici?

Che preferirei non mi ponessi questa domanda.

Non sono in grado di rispondere.

Inoltre, se lo facessi dovrei esternare impulsi rabbiosi verso chi giudica l’amore, qualunque forma di amore. L’amore verso un animale è uno degli amori più puri che esistano per un unico motivo e cioè che non ha nulla di carnale, sessuale, è un amore di anime, non a caso si chiamano animali; di un cane si ama l’anima. Si ama l’amore.

Quando mi sono sentito criticato a questo proposito è stata una delle rarissime volte in cui sono diventato sgarbato, sprezzante nelle mie risposte ed è avvenuto, soprattutto, nell’occasione in cui mi hanno detto: “Per un cane tutte queste storie“. Risparmiatevi, lo dico a tutti/e, il giudizio sulla sofferenza degli altri per un cane, un criceto, per il mare inquinato o quello che sia. 

Preferisco non parlarne o sarei cattivo verso chi giudica il dolore.

Stai scrivendo? Vuoi lasciarci con qualche anticipazione?

Ho appena terminato un romanzo che verrà pubblicato nel 2025, ci sto lavorando con una persona, un agente con cui ho creato un rapporto di collaborazione molto forte, si chiama Antonia, abbiamo fatto un piano e per quest’anno ho chiesto, e lei ha concordato con me, di prendermi una pausa dagli obblighi, sani, di andare a fare promozione, specialmente nei primi sei mesi dell’uscita di un romanzo, incontrare i lettori nelle librerie e non essendo più un ragazzino ho bisogno di riposarmi, allora in questo periodo sto facendo poco, ma molto mirato per continuare a promuovere “Io sono Hotel Garibaldi”.

Questo romanzo appena finito, credo sia il mio più autobiografico, perlomeno per tanti versi. Io ho vissuto, da buon sessantatreenne, gli anni bui che definisco di piombo, ma a Roma sono stati, davvero, gli anni più terribili della delinquenza, della violenza occasionale, casuale, gratuita, della spietatezza per mille lire, nel senso che fondamentalmente ci siamo ammazzati per una dose di eroina o per pochi spiccioli, e io li ho vissuti da spettatore partecipe, ero là, fisicamente, nelle zone dove si combattevano queste battaglie per la conquista di un metro di marciapiede, di un angolo di spaccio, ci si spartiva le gioiellerie dei quartieri. Roma era divisa in mappe fatte di singole strade, c’erano le bande di Monteverde, della Magliana che però aveva delle propaggini alla Montagnola su a San Paolo. E tutte le narrazioni che io ho letto di quel periodo, sebbene siano quelle più ben fatte, sono comunque spettacolarizzate o giudiziarie che non si discostano dalla realtà, ma che non rivelano la quotidianità per intenderci quella che la Arendt chiama “La banalità del male”; e l’essere un ragazzo dall’adolescenza alla giovinezza che vive in quelle strade, conosce quelle persone, quelle dinamiche, è stato faticoso. Morire era un caso, una sfortuna era stare nel metro quadro di marciapiede sbagliato nell’istante in cui le pallottole arrivavano e poteva succedere sia se si indossava la divisa da carabiniere o da poliziotto e sia se si era solo un ragazzo che voleva andare a giocare a pallone la sera o se si era invece uno di quelli che sparavano. Ecco questo è il romanzo terminato e nuovamente ho dovuto essere Zelig, quello di Woody Allen, non del cabaret milanese, e vestirmi di tanti altri ruoli per poterlo scrivere e provare a trasmettere l’atrocità dell’indifferenza.

Ora mi sto divertendo molto a scriverne un altro che sovverte tutte le mie abitudini di scrittura, giacché mi sto confrontando con la storia vera di quello che viene definito il primo serial killer italiano e quando si ha a che fare con episodi concretamente avvenuti, a quel punto, si deve avere rispetto degli avvenimenti che in questo caso sono molto confusi e non potrebbe essere diversamente, dato che stiamo parlando di un periodo in cui il regime fascista era al massimo fulgore e non si doveva menzionare per nessuna ragione la cronaca nera, figurarsi se poteva esistere un serial killer.

Non è un duello giudiziario o un giallo, tenendo conto del fatto che l’assassino è noto dalla prima pagina, anzi dal titolo, chi sia.

Sto cercando di scrivere anche questa storia da dentro l’omicida, da dentro le vittime e da dentro gli investigatori. È stimolante e per una volta non posso lasciarmi andare, ho l’obbligo di rimanere fedele alle date, agli indizi, agli eventi storici, alle tracce, alle prove, in altre parole alla vita del personaggio che vedrà la luce editoriale nel 2026/2027. Chi lo sa. Mi piace dire: “Citofonare Antonia Del Sambro”, la mia agente. Una toscana verace con tutte le caratteristiche delle toscane, dei toscani: diretta, salace e un po’ cattivella quando serve, però sempre dalla parte degli scrittori.

A cura di Maria Grazia Grilli

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Redazione StreetNews.it
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