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Da un vinile d’opera ai palcoscenici internazionali: intervista esclusiva a Ernesto Petti

A settembre il baritono salernitano ha sfoggiato in un’ulteriore occasione le forme della sua voce al Teatro San Carlo, in qualità di titolare del ruolo di Sharpless, nella “Madama Butterfly” di Giacomo Puccini. In quell’occasione, dal 12 al 28 settembre scorso, con la regia di Ferzan Özpetek e la direzione di Dan Ettinger, ha condiviso il palcoscenico con due cast, tra cui figuravano Ailyn Pérez, Saimir Pirgu, Valeria Sepe e Vincenzo Costanzo: “Sharpless deve essere un contrappunto compassionevole ed empatico rispetto a quello che è Pinkerton. Il personaggio è a me molto affine, vocalmente non mi dà particolari difficoltà, ma la mole d’emotività che richiede è notevole”.

L’alba del baritono, un fulmine a ciel sereno per Ernesto.

Mio padre era un appassionato d’opera, ma io non ero ancora legato a quel mondo. Sin da piccolo ho avuto a che fare con gli sport acquatici, dall’apnea alla pallanuoto, come la mia famiglia. Ho giocato tanto in Serie A2 di pallanuoto. Poi un giorno, verso i 18 anni, mia madre mi fece ascoltare un vinile in cui Franco Corelli cantava ‘Di quella pira’ e rimasi folgorato”.

Salernitano di nascita, ha intrapreso studi privati nella sua regione fino all’ingresso all’Accademia di Alto Perfezionamento “Puccini” di Torre del Lago e al Centre de Perfeccionament del Palau de les Arts con Placido Domingo: “i professori che ho incontrato, dagli inizi in Campania fino alle scuole di perfezionamento, non mi hanno mai particolarmente aiutato dal punto di vista tecnico. La tecnica per me è un lavoro da fare specialmente su sé stessi, da autodidatti”.

Dicono sia un baritono verdiano, ma mi definisco più un baritono all’italiana, potendo andare all’acuto e al grave con facilità. Adoro Puccini, specialmente la ‘Manon Lescaut’ come spettatore e ‘il Tabarro’ come interprete del ruolo di Michele. Mi trovo molto bene anche nel repertorio verista”. 

Ha debuttato al più grande festival operistico del Sud Italia, la “Valle d’Itria” di Martina Franca, per vari motivi unica: “Sergio Segalini mi diede la grande opportunità di salire su un palcoscenico lirico, per la prima volta in vita mia. L’opera fu l’’Orfeo ed Euridice’ di Gluck nella versione arricchita da Johanne Christian Bach. Io interpretavo un ruolo che nella versione originale non esiste, quello del padre di Orfeo, Eagro. Lui ha un recitativo e un’aria. Probabilmente ho debuttato nell’ultima occasione in cui l’opera sia andata in scena in quella versione”.

La dimensione del cantante lirico nel teatro e nel suo tempo.

La differenza tra i cantanti del passato e quelli di oggi è l’atteggiamento scenico. I cantanti di oggi, contando le dovute eccezioni, sono un po’ freddi, al contrario in passato l’interprete faceva arrivare ogni sensazione dalla voce e dall’azione”. Ernesto Petti, diventato appunto cantante lirico grazie all’ascolto di un grande tenore, traccia delle linee di confine tra oggi e ieri. Per lui la tecnologia non ha dato solo apporti positivi, come nel periodo della pandemia o della dimensione social dell’opera in generale: “le rappresentazioni dal vivo sono molto più autentiche, ci può essere l’errore, l’aspettativa che il pubblico ha. Il fatto che oggi ogni prova sia facilmente registrabile non è un bene per l’artista. All’epoca i cantanti lirici facevano molte défaillances, oggi il cantante sembra che non possa più sbagliare, dato che i video e gli audio vengono subito condivise ovunque”.

 Prima e seconda foto: www.connessiallopera.it – a cura di Giuseppe Scafuro.

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Redazione StreetNews.it
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