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Quando un duo come gli mLau funziona bene, la musica non conosce ostacoli

La formazione artistica di Maria Laura Ronzoni avviene tra l’Italia e l’Irlanda, dove inizia a suonare come artista di strada e contemporaneamente si diploma in canto presso Associated Board of the Royal Schools of Music and Drama. Negli anni collabora e condivide il palco con Aslan, Kila, Mary Stokes, Julie Feeney, Wally Page, Mark Geary, Kay McCarthy, Antonella Ruggiero, Alessandro Mannarino e Damien Rice.

Diplomato al Conservatorio di Santa Cecilia di Roma, Massimo Marraccini si perfeziona alla Berklee School of Music a Boston Mass. Collabora per diversi anni con le maggiori Orchestre Sinfoniche italiane: l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, l’Orchestra Sinfonica della RAI di Roma e Torino, l’Orchestra Sinfonica Regionale del Lazio, Roma Sinfonietta; dal 1998 al 2007 ricopre il posto di primo percussionista nella R.T.E. Concert Orchestra di Dublino e suona con artisti del calibro dei Corrs, Sir. George Martin, David Gray, Ronan Keating, Westlife, Boyzone. Rientrato in Italia nel 2008, riprende l’attività live come batterista e nel 2015 nasce il Sound Side Studio, dove avviene tutta la parte creativa della sua produzione musicale

Ciao mLau, cosa vi ha spinto a scrivere e cantare “Locked in”?
Da una parte il dispiacere nel vedere il mondo dell’arte e della cultura sull’orlo del precipizio dell’indifferenza, dall’altra la necessità di reagire a tutta questa situazione. Questa la spinta probabilmente a rimanere attivi pur vivendo un periodo musicalmente in standby da più di un anno ormai. In realtà il processo creativo è cominciato un po’ prima del primo lockdown. Era la fine del 2019. Avevamo nel cassetto bozze di materiale inedito, Massimo dei brani strumentali e Maria Laura delle canzoni scritte chitarra e voce. Una serie di eventi ci ha portato ad iniziare un carteggio di files da cui è immediatamente nata l’idea di unire le forze e le nostre diverse competenze artistiche e tecniche. Maria Laura cuciva storie e melodie sui brani di Massimo e Massimo arrangiava le canzoni di lei. Il primo lockdown della scorsa primavera è stata la spinta definitiva a realizzare un album di 9 brani composti interamente a distanza. Siamo riusciti a registrare le voci definitive la scorsa estate in studio, quando era possibile muoversi. La possibilità di riuscire a creare e comunicare qualcosa nonostante l’isolamento forzato ci ha tenuto in vita.

Quindi sono testi chiaramente diretti alla stanchezza di questo lungo ed interminabile lockdown?
Non solo. Abbiamo toccato con mano il fatto che l’arte ha il potere incredibile di trasformare gli eventi, o quanto meno di imparare ad osservarli traendone un insegnamento anziché subirne passivamente gli effetti. Abbiamo voluto cercare una risposta nel mondo che amiamo e che ci ha sempre nutrito, quello della letteratura, del teatro, della storia, della poesia, dell’arte in genere con l’intento di condividere un messaggio artistico a tutto tondo che cerchi amore e verità nella bellezza, della melodia, nel senso armonico delle cose. Crediamo nel fatto che l’umanità abbia bisogno di riflettere sul valore di tanti aspetti della nostra esistenza, del rapporto con gli altri e con il pianeta, che abbiamo perso o sottovalutato o che rischiamo di perdere. Il lockdown ci ha offerto l’occasione di riflettere su quanto la vita frenetica che siamo abituati a condurre nasconde quotidianamente ai nostri occhi.

Quanto secondo voi la pandemia ha inciso sulle vite degli italiani?
Una quantità non misurabile, al punto che non possiamo limitarci a parlare di noi come italiani ma come cittadini del mondo, come piccoli abitanti di un pianeta che stiamo distruggendo. Dovremmo iniziare a pensare a noi come cellule di un ecosistema a cui siamo naturalmente e indissolubilmente legati. La cellula non può sopravvivere alla morte del suo organo. Parliamo di una crisi epocale a livello globale che non può trovare soluzione se non a livello globale.

Entrambi avete avuto esperienze all’estero. Quanto e come è diversa la musica italiana da quella straniera?
Bisogna capire bene cosa si intende per musica italiana: fermo restando che in Italia si è prodotto e suonato di tutto, per noi la musica italiana per antonomasia è la canzone d’autore: De Andrè, Guccini, Dalla, De Gregori, Conte. Il rock non è italiano, il blues non è italiano il jazz non è italiano, neanche il rap è italiano e tantomeno la trap. La lirica per gran parte è italiana. La differenza fondamentale sta nel fatto che il senso melodico italiano viene appunto dalla lirica mentre quello americano viene dal blues; il risultato finale di quello che viene prodotto cambia in conseguenza del background culturale e musicale di ogni paese. Una differenza importante che abbiamo notato tra l’Italia e gli altri paesi è anche un modo diverso di vivere la musica e questo spiega la nostra esigenza di rivolgerci ad un mercato internazionale indipendente. Ci piace l’idea di sentirci liberi di esplorare e contaminare il vecchio con il nuovo, senza obbligo di compiacere le logiche di mercato.
Il nostro stile di racconto, o storytelling, cerca la possibilità di un dialogo tra le tradizioni musicali che sentiamo più affini al nostro modo di sentire la musica, incluse quelle che abbiamo studiato e praticato per tanti anni nei paesi che ci hanno accolto, Irlanda e Regno Unito in particolare.

Ultimamente molti artisti stanno lanciando l’idea di concerti in streaming. Cosa ne pensate?
Il mondo cambia, è in continua evoluzione, nel bene o nel male ma è così. In un momento come questo, avendo a disposizione la tecnologia giusta, non si può far altro. Il concerto in streaming però non è un concerto; è una delle possibilità che un artista ha di rimanere attivo ma quello che manca è l’ingrediente principale… il pubblico. Personalmente in questo momento preferiamo concentrarci sul lavoro di produzione. Ogni concerto è un’esperienza di scambio di energie e di emozioni: quello che rende “viva” un’esibizione musicale è l’interazione con il pubblico. Il calore che si sviluppa in una sala da concerto, non è riproducibile in streaming. Abbiamo partecipato ad alcuni di questi concerti di altri artisti e il silenzio assordante tra un brano e l’altro è quanto di più anti musicale si possa provare. Auspichiamo di uscire da questa pandemia quanto prima per tornare ad avere un contatto umano con il mondo fisico. Ci manca la musica dal vivo e lo scambio di energia palpabile che avviene dall’incontro con le persone che come noi amano la musica. 

Come mai il nome mLau?
Ci piaceva il suono di questa parola che è anche la sintesi delle iniziali dei nostri nomi. 

Con chi vorreste collaborare un domani?
Gli artisti, i produttori, i musicisti che stimiamo sono tantissimi. L’ideale sarebbe che qualcuno di questi ci proponesse una collaborazione. Voglio dire: a noi piacerebbe collaborare con chiunque tra i nostri maestri, ma non è detto che funzioni. La collaborazione artistica ha senso se porta valore alla musica che fai, non dovrebbe limitarsi all’obiettivo di mettere il grande nome sul tuo disco. L’ideale sarebbe che nascesse spontaneamente da ambo le parti.

Cosa bolle nella pentola di mLau oggi e nel futuro?
Nell’immediato stiamo lavorando al videoclip di “Blue Boy – Babylon Girl”, uno dei brani del nostro EP. Anche qui con grandi difficoltà imposte dalle restrizioni. Abbiamo anche in progetto la realizzazione di una performance, o meglio di un’esperienza audio-visiva che vada oltre l’idea di concerto, un’esibizione live multimediale in connubio con diverse forme d’arte contemporanea. 
Vorremmo avvalerci di tecnologie audio come il 5,1 o addirittura il 7,1 e creare una sorta di immersivo sonoro con il pubblico al centro che avrà la possibilità di percepire la musica a “360 gradi”. Questo il sogno a breve termine di mLau. Auguriamo a tutti un 2021 in buona salute e buona musica che scaldi il cuore.

Alessandro Testa

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Redazione StreetNews.it
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