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Il teatro di RezzaMastrella: tra comicità tragica e apostasia

Si sono concluse qualche giorno fa al Teatro Elfo Puccini di Milano le ultime repliche di “Anelante”, uno dei lavori teatrali di punta realizzati da Antonio Rezza e Flavia Mastrella. Rezza e Mastrella, che nel 2018 hanno ricevuto il Leone d’oro alla carriera per il teatro, collaborano da numerosi anni nella produzione di lungo e cortometraggi e hanno dato prova del proprio talento in varie forme d’arte. Sul palcoscenico teatrale hanno portato diversi lavori, la cui scrittura o meglio non-scrittura (nonché l’atto performativo) sono curati da Rezza, mentre l’allestimento scenico dalla Mastrella. Il teatro dei due artisti è non convenzionale, avulso da regole precostituite, e contiene in sé una deliberata aggressione contro il sistema, in qualsiasi forma istituzionale esso si palesi. La comicità che ne scaturisce, talora banalizzante ma mai banale, esplosiva e inarrestabile, è tuttavia amara poiché nasce da un senso esasperato di annichilimento: l’Uomo è schiacciato, soccombe, è abbandonato da Dio, eppure non rinuncia a lanciare il suo ultimo grido sussultorio. Per comprendere il fine della loro ricerca e delle loro scelte, ripropongo una duplice intervista risalente al 2014, concessami dai due artisti in momenti diversi, che, pur datata, è quantomai attuale. Partiamo da Antonio Rezza.

7-14-21-28”, titolo di uno dei vostri lavori, si riduce ad una progressione aritmetica. Nell’antica filosofia pitagorica il numero rappresentava l’essenza della realtà e la chiave di volta per comprenderla. Che funzione ha per voi il numero? Serve forse ad esprimere il senso oppure il non-senso della realtà?

7-14-21-28 è uno spettacolo scientifico che muove da un ideogramma inventato da Flavia, sul quale ho lavorato per un anno e mezzo. Quest’opera andrebbe studiata nelle facoltà di architettura e ingegneria, perché il meccanismo che rappresenta è perfetto, numerico: lo spazio diventa numero, in ogni porzione dello spazio scenico è possibile individuare una determinata cifra. E il nostro teatro, in quanto legato all’arte contemporanea, non mira ad altro che a giocare con le posizioni e ad invadere gli spazi.

L’Uomo, l’anti-protagonista, urla sulla scena il suo dramma interiore fino allo stremo delle sue forze; esprime la sua disperazione anche dimenandosi con movimenti incontrollati. Ma, con questa sua incontenibile esplosione di parole e gesti, riesce davvero ad esprimere fino in fondo la sua tragedia esistenziale?

Non possiamo porci come obiettivo la tragedia esistenziale degli altri, ma almeno possiamo parlare della nostra. Il tipo di comicità che smotta, che è irresistibile e devasta il pubblico, sicuramente è legata a uno spirito tragico. Il vero comico è cattivo: il comico non deve essere buffo, ma demoniaco, invasato, deve avere un rigore perfido, risvegliare la perversione. L’accezione che abbiamo oggi della comicità è completamente travisata, mistificata: non basta saper far ridere per essere comici.

Ma forse anche puntare a correggere i vizi della società se castigat ridendo mores

La nostra però non è satira. La satira è serva del regime, perché parla con il linguaggio del regime, anche di quello più apparentemente progressista e democratico. Per dirla in termini di estremismo teorico, ogni governo è un regime. Ciò che facciamo non si può definire satira, ma è semplicemente arte contemporanea attraverso le opere di Flavia, mentre con me, Ivan Bellavista e Giorgio Gerardi diventa “pratica” del corpo, di noi stessi.

Il dramma esistenziale dell’Uomo sembra proiettato in una dimensione a-temporale o meglio trans-temporale: sembra cioè che non esista una netta linea di demarcazione tra passato, presente e futuro, che vengono quasi a costituire un tutt’uno…

Non viene fatto di proposito se è così. Queste cose che mi chiedi sono molto interessanti perché riflettono una tua interpretazione soggettiva. In uno spettacolo pseudonarrativo non c’è possibilità di smarrimento. Alla domanda che ti poni, rispondi tu stesso. E quindi non posso arrivare ad affermare che la tua percezione è errata.

Il sacro non ha alcuna funzione salvifica, anzi viene ribaltato, rovesciato e per dirla con una figura etimologica “sconsacrato”…

Cosa intendi per sacro?

Mi riferisco al culto e alla ritualità religiosa…

Per me la religione non è affatto sacra.

Intendo dire: quello che nell’accezione comune è considerato sacro viene continuamente evocato nelle tue performance; la sua presenza è pressoché costante, quasi ossessiva…

Certo, siamo tutti vittime di quello che io considero il non-sacro. Flavia un po’ meno di me perché ad esempio si è rifiutata di partecipare ad un film che sto girando da 10 anni su Cristo, sostenendo che si tratterebbe di una pubblicità occulta alla religione. Dalla religione io sono in un certo senso ossessionato per via dell’educazione che ho ricevuto. Ma la cosa più spregevole che mi porto dietro è il senso di colpa. Il senso di colpa è uno strumento di controllo come le case popolari, fatte male: attraverso di esso si riesce ad imbrigliare la libertà dell’essere umano. Per me Dio non esiste, non può esistere, sarebbe assurdo se esistesse. Il vero miracolo che dovrebbe fare Dio è appunto quello di esistere.

Massimiliano Longobardo

Foto di copertina: Giulio Mazzi

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Redazione StreetNews.it
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