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Enea, l’eroe troiano che “fondò” Roma

L’ultimo lavoro del prof. Mario Lentano indaga in chiave biografica la fortuna di un mito imperituro.

È di pochi mesi fa la pubblicazione del volume Enea: l’ultimo dei Troiani, il primo dei Romani (240 pp., Salerno Editrice) a cura del prof. Mario Lentano, che insegna Lingua e letteratura latina all’Università di Siena ed è membro dell’AMA (Centro interuniversitario di ricerca Antropologia e mondo antico). Il lavoro è incentrato su una delle figure più suggestive e fortunate del mito classico, la cui fama è stata consacrata da Virgilio. Le peregrinazioni del figlio di Anchise (che costituiscono la cosiddetta sezione odissiaca dell’Eneide) lo portarono sulle sponde del Lazio dove, dopo una faticosa guerra (sezione iliadica) e il matrimonio con la figlia del re del luogo, di fatto diventò progenitore dei futuri fondatori di Roma. Ma, accanto all’immagine dell’eroe pius,indissolubilmente legata all’opera virgiliana, esistono altre versioni del mito che offrono una visione differente, in qualche caso opposta a quella presentata dallo scrittore augusteo. Su questi aspetti e altre implicazioni che emergono dalla sua approfondita ricerca, si è soffermato il prof. Lentano in una breve intervista che di seguito riportiamo.

Prof. Lentano, il personaggio di Enea compare già nella versione omerica come valoroso eroe troiano. C’è una linea di continuità tra l’Enea omerico e quello virgiliano?

Enea è già in Omero un guerriero di un certo spicco e un ascoltato consigliere; inoltre, i suoi sacrifici sono amati dagli dèi, che anche per questo decidono di preservarlo dalla carneficina che pone fine alla guerra. Esiste dunque una continuità con l’eroe virgiliano, che spicca per la sua devozione e al tempo stesso per il suo valore sul campo di battaglia. S’intende però che otto secoli tra Iliade ed Eneide non sono passati invano e che Virgilio tiene conto anche delle altre fonti che hanno ripreso e sviluppato il mito, sia in Grecia che a Roma; è anzi un peccato che queste fonti siano quasi tutte perdute e che non consentano dunque di apprezzare appieno i debiti del poeta con la tradizione e i tratti originali che Virgilio imprime invece al suo personaggio.

Nel suo lavoro ha analizzato versioni ai più meno note del mito di Enea, come quella che farebbe di lui un traditore, che, per aver salva la vita, spalancò le porte della città di Troia al nemico. In altre sarebbe stato persino un vincitore, in quanto i Greci di fatto non avrebbero mai vinto la guerra di Troia. Come cambiano, in generale, la percezione e il ruolo dell’eroe nelle diverse varianti? Inoltre, perché la versione virgiliana si è affermata nettamente sulle altre?

I miti sono racconti fluidi, che vivono delle loro varianti: e quello di Enea non fa eccezione. Accanto alla versione virgiliana, che possiamo definire “canonica” perché l’autorevolezza del suo autore l’ha imposta all’immaginario della cultura antica e moderna, esistevano molti altri Enea, come quelli cui lei faceva riferimento. C’è l’eroe di un popolo che, al contrario di quello che raccontava Omero, ha vinto la sua guerra contro i Greci e ha condotto i propri uomini a colonizzare l’Italia e l’Europa, e c’è il traditore che per interesse personale ha consegnato la sua città ai nemici: due volti opposti, che probabilmente esprimevano atteggiamenti altrettanto opposti verso i Romani, che si facevano discendere da Enea. Se alla fine a prevalere nell’immaginario è stata la versione di Virgilio è in primo luogo per la straordinaria bellezza dell’Eneide, poi per il fatto che quest’ultima è entrata sin da subito nelle aule scolastiche per non uscirne praticamente mai più sino ai giorni nostri, e infine perché l’Enea virgiliano esprimeva meglio di altri la percezione che i Romani avevano di sé e intendevano comunicare all’esterno.

A suo avviso, perché Creusa e Lavinia, figure di “mogli legittime”, nell’Eneide passano in secondo piano rispetto a Didone?

Di una donna perbene, dice il Pericle di Tucidide, bisogna parlare il meno possibile, sia per biasimarla sia per elogiarla: e a Roma non è diverso, la perfetta matrona passa la vita nell’atrio della casa a filare la lana e custodire l’integrità della famiglia. La sola virtù che le viene richiesta è la fedeltà coniugale, che si risolve più in un astenersi che in un fare. Le mogli legittime di Enea si adeguano a questo modello: basti pensare che Lavinia non pronuncia in tutta l’Eneide neppure una parola, pur essendo la posta in gioco di una guerra che si protrae per l’intera seconda metà del poema. Didone è invece l’immagine della tentazione, che l’eroe è chiamato a sperimentare ma anche a lasciarsi alle spalle: una tentazione che consiste nell’anteporre la propria minuscola felicità individuale e privata alla realizzazione di un progetto, quello della fondazione di Roma, destinato a cambiare la storia del mondo. Può risultare sconcertante agli occhi dei moderni, ma Enea adempie fino in fondo il suo dovere di uomo “pio” proprio nel momento in cui accetta di lasciare Cartagine e di riprendere la sua navigazione verso l’Italia.

Intervista di Massimiliano Longobardo

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Massimiliano Longobardo
Massimiliano Longobardo
Giornalista pubblicista iscritto all'ODG Campania, è dottore di ricerca in filologia classica e insegnante di latino e greco, nonché atleta master di nuoto per salvamento. Settori di interesse: territorio flegreo, teatro, scuola e istruzione, nuoto e discipline acquatiche.
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