Diario di avventure, finestre sulla Terra. Nella valle del cafè, nell’Eje cafetero

Ci svegliammo abbastanza presto, destati dalla voce decisamente potente del venditore di “Tamale”, una pietanza tipica in Colombia che consiste in cuocere delle carne, del riso, fagioli al gusto, uova, il tutto bollito dentro una foglia di platano chiusa da uno spago. Già svegli decidiamo perciò di comprarne due e, con un buon caffè, facemmo colazione in casa, sul letto che, era gigantesco, un vero king size con un piumone bianco che sembrò dormire fra le nuvole. Era molto buono, doccia e fuori, non era ancora tempo di tornare a casa, ci mancava ancora una tappa del viaggio, l’ultima da queste parti, nel Quindio.

Il bus viaggiò con le porte aperte chissà, forse per far ventilare il piccolo mezzo di trasporto, non mi dispiacque al contrario, mi piacque abbastanza, potetti vedere tutto il panorama che si districava lungo le pendici delle montagne che stavamo percorrendo e che, dopo circa 2 orette ci portarono nel cuore dell’Eje Cafetero dove, saremmo andati anche nel famoso Parque del Cafè! Si era già fatta l’ora di pranzo così, chiedemmo di scendere vicino alla finca dove avevamo prenotato le due notti, di fronte al parco del caffè e che, giustamente, all’inizio della strada, c’era anche un ristorante che faceva carne alla brace. Un signore con delle lunghe pinze di metallo muoveva abilmente la carne presente sopra la griglia. Prendemmo posto ed ordinammo, era tutto delizioso! La casa/hotel che ci avrebbe ospitato era al fondo di una strada in terra a circa una ventina di minuti camminando e così, ci incamminammo. Sul lato sinistro, ogni tanto una villa, una finca e tantissime piante di platano sulla parte destra invece, molteplici piante di papaya, alcuni cani abbagliavano sull’uscio dei cancelli delle case, abbagliavano senza uscire ma, abbastanza minacciosi ed io che, da sempre credo, ho un cerco timore dei cani, acceleravo il passo e guardavo dritto davanti a me, tra le risate divertite di Seba. Finalmente raggiungemmo la casa che ci avrebbe ospitato. Era molto grande, una struttura principale con delle stanze per gli ospiti ed altre tre o quattro piccole strutture con altrettante camere per altri avventori. Ci toccò una di queste, era tutto semplice ma curatissimo. Lasciammo lo zaino, ci infilammo il costume da bagno e via in giardino perché, a completare la proprietà v’era una bellissima piscina, anzi due, una per i bambini con l’acqua bassa e l’altra per chi già sapeva nuotare. C’era una famiglia giocando nell’acqua e bevendo birra, tra una cosa e l’altra si erano già fatte le cinque del pomeriggio. L’elemento che mi entusiasmò la vista fu, tutto intorno a noi, alla casa ed al giardino e la piscina, coltivazioni di papaya.

Piccoli alberi verdi, pieni stracolmi dei loro frutti, papayas appunto, la maggior parte ancora verdi, alcune giallognole ed altre già in terra che traspiravano un profumo dolce e affascinante. Era pienissimo, la casa/hotel era circondata, incastonata in questa stupenda piantagione. Andai ad osservare da vicino alcune di loro, vi camminai in mezzo, con il mio costume azzurro e i miei infradito nere quando, all’improvviso vidi, sopra la rete da pallavolo montata nel giardino della casa, un piccolo minuscolo puntino rosso rosso. Era un passerotto, un uccellino che si stava riposando lì sopra, adagiato. Mi avvicinai il giusto per vederlo meglio senza spaventarlo. Era davvero piccolo e di un rosso incredibilmente forte ed intenso. Sembrava che stesse sbadigliando e si stesse stiracchiando appena sveglio, facendo le smorfie tipiche di un piccolo adolescente prima di andare a scuola. Era tenerissimo, lo osservai per qualche minuto prima di tuffarmi in acqua!

Arrivò il tramonto che accarezzo languido le coltivazioni ed i campi tutto intorno a noi. Così come anche, i nostri volti osservandolo semi sdraiati sulle sedute a bordo piscina. Calò la notte, scese il giorno e quando il sole non c’è qui, arriva rapidissima l’umidità con un pochino di freddo cosicché, rientrammo nella nostra stanza dove ci vestimmo per la notte.

Giungemmo al “Parque del Cafè” abbastanza presto, all’orario di apertura, verso le dieci del mattino, dopo aver fatto colazione con una macedonia di frutta dove, ovviamente la protagonista fu la papaya! Raccogliemmo le nostre poche cose ed eccoci lì, all’entrata del parco. Per raggiungere la parte principale, che si trova in basso, nella valle, si scende lungo il fianco dell’enorme distesa di caffè, con una funicolare! Il profumo di caffè è impressionante, buonissimo ed intenso. Ci sono diverse attrazioni tematiche, montagne russe, gommoncini in acqua a scontro, spettacoli sulla storia del caffè tutto veramente ben fatto e soprattutto uno show incredibile dove, ballerini e ballerine ripercorrono attraverso le differenti danze tipiche di tutto il territorio colombiano, la storia del paese che mi sta ospitando, un’ora e trenta di puro spettacolo, con costumi tipici e musiche incredibili. All’uscita il sole picchia forte così, ci beviamo una granita di caffè del celebre Juan Valdes, con panna io ovviamente ed un dolce al cioccolato che rompiamo in due parti, per condividerlo. Saliamo su alcuni giochi, camminiamo e facciamo foto, ci divertiamo moltissimo.

Dopo due ore e trenta di ritardo, dovute ad una tormenta elettrica che quasi quasi non mi fa salire sull’aereo per il panico e lo spavento, raggiungiamo La Ceja e casetta nostra. È ora di rivedere le foto che, fanno ricordi indelebili dentro di me, di noi.

a cura di Michele Terralavoro

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