Covid 19: la lotta contro un nemico invisibile

Da specializzando nel reparto  di cardiochirurgia presso il Policlinico di San Donato Milanese , da me frequentato da pochi giorni per completare un percorso formativo  iniziato 4 anni or sono alla SUN di Napoli, mi sono visto catapultato in una realtà apocalittica, impegnato in una urgenza senza fine che mai avrei immaginato tanto  drammatica. Tutto scorreva nella normale routine quotidiana quando  un crescente e ripetuto suono di  sirene di   ambulanze, squarciando  l’aria con il loro stridente ed incessante sibilo,  mi ha indotto a ritenere  che qualcosa  di terribile stava accadendo . Qualcosa che avrebbe modificato   velocemente e profondamente i  nostri comportamenti! Qualcosa che si sarebbe impresso nella mia mente in modo indelebile. Con il passare dei giorni scene strazianti di dolore si presentavano ai miei occhi davanti all’ingresso  del Pronto Soccorso: un affluire continuo di ambulanze  con a bordo pazienti in grave compromissione dello stato generale, trasportate da autisti, personale sanitario e parasanitario in divise colorate con il volto coperto da maschere, con copricapo, tute e calzari per difendersi dal contagio. Di fronte ad una situazione fortemente critica e creatasi in modo così repentino,non riuscendo a smaltire tutti i pazienti che avevano bisogno di un ricovero, è stato necessario  convertire le  aree della degenza ordinaria ad aree destinate al ricovero ed al trattamento  di pazienti portatori di coronarovirus.

Nasceva così l reparto Covid  19

Neanche per un attimo ho pensato di tirarmi indietro:  l’attaccamento al dovere, il senso di responsabilità,l’amore per il prossimo, l’abnegazione mi hanno spinto ad arruolarmi nel team dei medici che in primo piano si sono lanciati nella sfida  contro questo nemico invisibile, anche se il mio perfezionamento riguardava un’altra specialità. La  decisione di apportare  il mio contributo nello affrontare e sconfiggere questo perfido nemico è scaturito non solo dalla sofferenza  profonda che traspariva dal volto dei  malati ma anche  per il rispetto  nei confronti dei miei colleghi con i quali   si era creato un  profondo legame di amicizia. 

Lunghi, interminabili momenti che lasciano il segno: ricordo l’atmosfera surreale quando al mattino, dovendo percorrere un tratto di strada per giungere all’ospedale ,  non vedevo  nessuno: ero solo io a percorrere quella strada vuota e silenziosa che   nei giorni precedenti  appariva chiassosa , brulicante di esseri umani e di immagini di  vita . Solo il cinguettio degli uccelli mi accompagnava lungo il breve percorso. Le saracinesche di bar, tabacchi e negozi chiusi mi davano l’ impressione di camminare in una città fantasma.  Man mano che mi avvicinavo all’ ingresso  dell’ ospedale  mi prendeva  un sentimento di grande compassione  all’idea di vedere il dolore stampato  sul volto degli ammalati e la scarsa possibilità di poterlo lenire. La paura di essere contagiato scompariva: il pensiero dominante era rivolto sempre a loro che  forse non avrebbero più rivisto  il tramonto . In reparto per fortuna  lo straordinario spirito collegiale mi infondeva coraggio  e tutti insieme affrontavamo  con  rinnovata forza  e speranzaun ‘altra  giornata di” guerra”

 Il team che combatteva il coronavirus era composto da vari medici specialisti e specializzandi nelle varie branche della medicina e, quindi, insieme ci siamo dovuti “reinventare” una esperienza nuova lavorando  su una patologia polmonare sconosciuta nella sua virulenza e nella sua  terapia, usando farmaci apparentemente inefficaci ed in via sperimentale. Un momento particolarmente drammatico  si presentava quando si dovevano selezionare  i pazienti in attesa di accedere alla terapia intensiva , quando i ricoverati raggiungevano un numero elevato e di circa 10 volte la disponibilità  di posti . Vorrei cancellare per sempre quegli attimi in cui vedevo contagiati in gravi condizioni  che necessitavano del ventilatore automatico che, però, non era disponibile, per cui, non c’era alcuna possibilità di poterli strappare alla morte. Non poter assistere quei pazienti  in modo adeguato, vederli  poi peggiorare e addirittura in  agonia, mi ha creato   una sensazione di forte disagio , di profonda  amarezza e  di avvilimento perché  mi rendevo conto della impotenza della scienza medica contro un nemico molto agguerrito. Tornare a casa la sera con in mente l’ immagine scolpita di chi non ce l’ aveva fatta o  di chi l’ indomani probabilmente avrebbe subito la stessa  sorte mi procurava un senso di  irrequietezza e di impotenza, sonno interrotto da incubi.

Ma c’erano anche altri fattori che contribuivano a scuotere il mio animo: nel fine settimana  c’ erano troppe persone in giro ,con il rischio di diffondere ulteriormente il contagio. Non condividevo inoltre  l’ atteggiamento di famiglie  che esponevano la scritta” andrà tutto bene” o che cantavano  dai balconi delle proprie abitazioni. So che lo facevano in buona fede e che era anche un modo per sentirsi più uniti, ma io trovavo tutto ciò irrispettoso nei confronti delle tante persone  che avevano perduto un loro caro e che magari si trovavano a pochi metri dal balcone da dove proveniva il canto. 

 Per fortuna la situazione è andata piano piano migliorando. Molti pazienti si sono salvati lasciandosi alle spalle tutte le sofferenze. Questo ci ha dato la forza per continuare a lottare. Grande è stata la soddisfazione di poter salutare tanti malati  che hanno sconfitto il coronavirus . Vederli felici di riprendersi la loro vita  appagava i nostri sforzi ed i nostri sacrifici .La gioia impressa  sui loro volti diventava anche la nostra, i loro sorrisi poco prima di andar via dal reparto hanno riempito i cuori di tutti noi medici.

Stiamo quasi per vincere la nostra battaglia : ormai l ospedale è pressappoco  privo di malati covid19 . Molti non ci sono più è vero, ma la maggior parte ha potuto riabbracciare i propri cari, altri lo faranno presto. E per questo  ringrazio tutto il team di cui ho avuto l onore di far parte. Tutti i colleghi, capitanati  dalla dott.ssa  Castelvecchio, sono stati esemplari. Con loro ho condiviso gioie e dolori  di questa inaspettata esperienza. L’ ospedale San Donato ha superato la fase  critica e lentamente il Paese sia avvia  alla normalità . Ma la guerra non è ancora vinta , bisogna lottare tutti uniti per liberarci  definitivamente  da questo male che lascerà   inevitabilmente un impronta incancellabile su ognuno di noi.

Perché questo racconto? Perché è fondamentale sensibilizzare la coscienza di tutti ad affrontare la vita in  modo nuovo, nella consapevolezza che i comportamenti di ciascuno sono strettamente correlati agli altri.. E per non essere solo attore e spettatore di queste drammatiche vicende  e fino a quando non sarà disponibile un vaccino od altro farmaco capace di fermare la corsa mortale di questo virus, cosciente che la situazione non è del tutto ancora sotto controllo, desidero lasciare questo messaggio : Seguiamo  le indicazioni che la comunità scientifica  ci detta circa gli atteggiamenti da tenere nella vita di tutti i giorni. Una società può dirsi civile e solidale solo se l’”io” arretra per fare spazio al ”noi”.

a cura di Paolo Napolitano